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Startup italiane: un ecosistema che resiste, ma non accelera. E il 2025 lascia più domande che certezze

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Il 2025 si chiude senza scossoni per l’innovazione italiana. Gli investimenti in equity nelle startup e scaleup hi-tech si fermano a 1,46 miliardi di euro, praticamente gli stessi del 2024. Una crescita timida (+2,8%) che, più che rassicurare, conferma la sensazione di un ecosistema che galleggia, ma non avanza.

Lontani dal record del 2022 e privi di quel cambio di passo che molti attendevano, gli operatori si trovano davanti a una fotografia che mette a fuoco un fatto semplice: la resilienza non basta più. Servono condizioni strutturali nuove, perché la tenuta di oggi rischia di tradursi nell’immobilismo di domani.


Secondo i dati dell’Osservatorio Startup & Scaleup Hi-Tech del Politecnico di Milano, gli investimenti restano stabili perché a mancare non sono le idee o i talenti, ma gli ingranaggi necessari per trasformare buone startup in scaleup globali.

Tre i segnali più evidenti:

  • Nessun grande round in grado di trainare l’ecosistema.
  • Exit quasi inesistenti, che bloccano la rigenerazione del capitale.
  • Crescita del capitale internazionale troppo timida (+8%) e concentrata su pochi “campioni” come Bending Spoons.

Il risultato? Un mercato che si regge soprattutto su investitori domestici e in cui l’area centrale – startup promettenti ma non ancora mature – continua a fare fatica a scalare.


In Italia ormai non è più un mistero: il problema non è la qualità dell’innovazione, ma le condizioni intorno ad essa.

Manca uno strato intermedio di fondi di grandi dimensioni, specializzati e in grado di sostenere operazioni late-stage. Manca un flusso costante di M&A, manca una pipeline di IPO, manca la cultura dell’internazionalizzazione. E soprattutto manca il meccanismo chiave di ogni ecosistema maturo: le exit significative.

Senza exit, gli investitori non rientrano del capitale e non reinvestono. Senza grandi round, le startup non diventano scaleup. Senza scaleup, non si crea un mercato di unicorni. Un ecosistema che non si autoalimenta finisce per restare brillante, ma incompleto.


Il 2025 segna qualche segnale incoraggiante nell’area Deep Tech, con operazioni più consistenti e una maggiore attenzione da parte degli investitori. Ma anche qui il trend è discontinuo: non abbastanza startup, non abbastanza capitali, non abbastanza collegamento tra università e impresa.

In altri Paesi europei il Deep Tech è già la leva strategica per la competitività dei prossimi 20 anni. In Italia, per ora, rappresenta più una promessa che una certezza.


ICT Europe

Uno spiraglio arriva a livello comunitario: la nuova Commissione Europea ha rimesso sul tavolo il progetto del cosiddetto “28th Regime”, un quadro normativo unico per le imprese innovative che operano all’interno dell’UE.

Se attuato, potrebbe ridurre drasticamente la frammentazione normativa che oggi frena gli investimenti cross-border, abbassando costi e complessità per chi vuole crescere in più Paesi.

Per un ecosistema che soffre di iper-localismo e scarsa apertura internazionale, sarebbe un passo avanti enorme.


Il 2025 ci lascia in eredità una domanda cruciale: che cosa serve per far scalare davvero l’innovazione italiana?

Dai ricercatori del Politecnico e dagli operatori del settore emergono tre direttrici strategiche:

1. Integrare molto di più ricerca, università e impresa

Non solo trasferimento tecnologico, ma percorsi strutturati per trasformare risultati scientifici in startup di qualità nel Deep Tech.

2. Rafforzare i fondi domestici e coinvolgere gli investitori istituzionali

In particolare fondi pensione e casse di previdenza, imprescindibili nei Paesi dove il Venture Capital è davvero competitivo.

3. Costruire una strategia europea condivisa

Non solo per attrarre capitali, ma per rendere normale ciò che oggi è eccezionale: round significativi, exit, operazioni late-stage, talenti internazionali.


L’Italia ha talento, idee, ricerca di qualità e alcune scaleup che potrebbero diventare i prossimi unicorni. Ma non può restare prigioniera di un equilibrio stagnante.

Il futuro del nostro ecosistema non dipenderà dal prossimo caso di successo isolato, ma dalla capacità di costruire una normalità fatta di capitali pazienti, regole chiare, exit possibili e ambizioni europee.

La domanda non è più se possiamo competere, ma se vogliamo davvero farlo. Il 2026 sarà l’anno in cui capirlo.

Fonte: Osservatorio Startup & Scaleup Hi-Tech