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Un’impresa su tre cerca lavoratori stranieri: la vera crisi non è economica, ma di competenze

C’è un dato che sta facendo riflettere molti imprenditori italiani: una su tre tra le imprese del nostro Paese assumerà lavoratori extra-UE entro il 2026. Non per una moda, né per convenienza. Semplicemente perché non trova personale italiano.

Il numero arriva da una ricerca di Unioncamere e Centro Studi Tagliacarne, e fotografa una realtà con cui sempre più aziende devono fare i conti. La verità è che in Italia mancano persone disposte (e formate) a fare certi lavori – e questa non è più solo un’impressione: il 73,5% delle imprese lo dichiara apertamente.


Spesso si tende a liquidare il tema pensando: “Assumono stranieri perché costano meno”. Ma non è così. Solo il 3% delle aziende cita il costo del lavoro tra i motivi principali. A pesare davvero sono altri fattori: mancano giovani, mancano competenze, e in molti settori – specialmente quelli più tecnici – trovare profili giusti è diventato un vero incubo.

E così, le aziende si guardano intorno. Non solo verso altri Paesi, ma anche verso italiani di seconda o terza generazione che vivono all’estero, soprattutto in Sud America: persone con competenze già solide, magari anche con legami familiari o culturali con l’Italia. In molti casi, pronti a trasferirsi se si presenta l’occasione giusta.


A muoversi più velocemente sono le imprese del Nord Est, soprattutto nei settori manifatturieri più avanzati. Ma il trend riguarda tutta Italia, anche se con velocità diverse. Le figure più cercate? Operai specializzati, tecnici, artigiani, ma anche professionisti con alte competenze. E no, non si parla solo di lavori “umili” o poco qualificati.

Un altro segnale interessante: le aziende che assumono lavoratori stranieri investono di più nella loro formazione. Questo vuol dire che non si cerca solo “manodopera”, ma persone da inserire e far crescere, proprio come qualsiasi altro dipendente.


Per prima cosa, che il mondo del lavoro non aspetta. Se mancano persone con certe competenze, chi le ha – indipendentemente da dove viene – verrà cercato e valorizzato. Secondo: che la diversità non è più un tema “etico” da discutere nei convegni, ma una leva concreta per tenere in piedi (e far crescere) le nostre imprese.

E soprattutto, che formare, accogliere e integrare non è un favore che facciamo a qualcuno, ma un investimento che facciamo su noi stessi, sul nostro futuro e sulla competitività del Paese.

Fonte: aise